Il silenzio del limen

PROF. FRANCESCO REMOTTI
Biografia, curriculuum e bibliografia


Francesco Remotti (nato nel 1943) ha insegnato Antropologia culturale all’Università Statale di Milano (1976-1979) e all’Università degli Studi di Torino (1979-2013). Dal 1976 al 2013 ha intrapreso una serie di soggiorni presso i Banande del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), e dagli anni 80 ha svolto ricerche etno-storiche sui regni dell’Africa precoloniale. Dal 1979 al 2004 ha diretto la Missione Etnologica Italiana in Zaire (poi in Africa Equatoriale). I suoi scritti principali sui Banande sono raccolti nei volumi Etnografia nande I. Società, matrimoni, potere (Torino, Il Segnalibro, 1993), Etnografia nande II. Ecologia, cultura, simbolismo (1994), Etnografia nande III.
Musica, danze, rituali (1996), oltre che in numerosi altri articoli successivi. Sui regni africani ha invece pubblicato Centri di potere. Capitali e città nell’Africa precoloniale (Torino, Trauben, 20142).
Le sue indagini teoriche hanno riguardato le prospettive epistemologiche in antropologia, i concetti di identità e somiglianza, la concezione dell’antropo-poiesi.

Tra le pubblicazioni più significative:
Contro l’identità (Roma, Laterza, 1996); Contro natura. Una lettera al Papa (Laterza, 2008); Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia (Torino, Bollati Boringhieri, 2009); L’ossessione identitaria (Laterza, 2010); Cultura. Dalla complessità all’impoverimento (Laterza, 2011); Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi (Laterza, 2013); Somiglianze. Una via per la convivenza (Laterza, 2019); con Maurizio Bettini e Massimo Raveri, Ridere degli dèi, ridere con gli dèi. L’umorismo teologico (il Mulino, 2020); con Marco Aime e Adriano Favole, Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione (Utet, 2020).
Attualmente è professore emerito di Antropologia culturale, nonché socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei.

ADRIANO TOLOMEI
Biografia e curriculuum


Adriano Tolomei ha frequentato l’Istituto d’Arte A. Passaglia di Lucca e si è diplomato Maestro d’Arte all’Istituto statale d’arte di Firenze nel 1960. Ha iniziato subito la sua attività artistica nell’azienda di famiglia creando modelli di articoli di arte religiosa, in particolare personaggi di presepe, di articoli da regalo e di articoli di ornamento della casa.
Ai primi degli anni ’70, grazie alla disponibilità di nuovi materiali sviluppati dall’industria chimica e affascinato dalle capacità di espressione artistica loro inerenti, dette inizio ad una nuova attività. Messe a punto tecniche appropriate di lavorazione che gli permettessero di sfruttare adeguatamente le proprietà di questi materiali, realizzò numerose forme in resina colorata e trasparente. Queste ebbero successo per la loro bellezza e modernità.
A partire dagli anni ’80 diversificò i suoi interessi ed iniziò l’attività di designer nel settore del mobile e dell’arredamento. La creazione di vari oggetti, sempre sfruttando con sensibilità nuovi materiali, lo ha portato nel 2003 nel novero dei vincitori del concorso Top Ten di Udine, con la sedia Baba, tuttora un successo sul mercato, tanto che Riddley Scott la preferì per l’habitat cosmonautico della consolle dell’astronave nel film The Martian – Il sopravvissuto.

Negli anni seguenti ha creato e continua a creare oggi modelli in ceramica di vasi, di piatti e di oggetti per la casa, scegliendo materiali e tecnologie di avanguardia, ma si è dedicato sempre di più
alla creazione di sculture in ceramica ed in bronzo.

GIOVANNI BOVECCHI
Biografia e curriculuum


Giovanni Bovecchi, nato a Viareggio nel 1963, ha fondato in Pietrasanta, nel 1996, la casa editrice petrartedizioni, grafica, editing e atelier espositivo, sottolineando la sinergia funzionale dei tre campi creativi. Numerose le curatele delle mostre sia in Italia che all’estero e le edizioni di pubblicazioni sia nel campo artistico, letterario, scientifico e storico. Ha lavorato con enti pubblici e privati, cercando, sempre, nell’ideazione, formule grafiche e di copywriting tese alla ricerca della innovazione e perfezione. È editor, copywriter, graphic designer, critico e curatore indipendente.

FARE, DIVENIRE E LE FORME SOTTRATTE AL TEMPO
di Francesco remotti

(Estratto critico sinottico del testo introduttivo
al catalogo TOLOMEI – IL SILENZIO DEL LIMEN)

[…] Nella seconda metà del 1400 Pico della Mirandola ha esposto questa teoria con un mito molto efficace, che modifica in buona parte il mito biblico della Genesi. Secondo il racconto della Genesi, la divinità avrebbe costruito o plasmato l’essere umano a “immagine e somiglianza” della stessa divinità. Secondo Pico, invece, la divinità, dopo avere costruito il mondo intero, si sarebbe trovata in difficoltà, allorché volle creare un ultimo essere, l’essere umano: infatti, non c’erano più posti nel cosmo e non c’erano più modelli disponibili. La divinità allora assegna alla nuova creatura la “libertà” di foggiare sé stessa secondo i suoi desideri, le sue scelte, le sue decisioni, i suoi programmi, le sue preferenze. Diamo, con Pico, la parola alla divinità: «Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto».
La divinità fa dell’uomo un plastes et fictor di sé stesso. Se è vero che Homo sapiens non ha una natura umana fissa e determinata, ha però un obbligo: quello di dare forma a sé stesso attraverso la cultura. Potremmo dire che Homo sapiens è costretto a essere modellatore di sé stesso: è condannato all’antropo-poiesi. Il fare di faber si unisce – come abbiamo visto – allo sperimentare libero di ludens. A questo continuo modellamento non ci si può sottrarre.
Essere plastes et fictor di sé stesso avvicina l’uomo a Dio: è come se l’uomo si sostituisse a Dio nel creare sé stesso. Ma l’antropo-poiesi è una vicenda totalmente umana, non divina.
Come lo stesso Pico aveva posto in luce, l’antropo-poiesi è caratterizzata da una molteplicità di direzioni, da una pluralità di modelli possibili a cui ispirarsi, e dunque da un disorientamento di fondo. «L’uomo non ha una propria immagine nativa, ma molte estranee ed avventizie».
Quale strada prendere? Quale tipo di umanità realizzare? Non solo, ma l’antropo-poiesi non coincide con un atto di creazione definitivo. L’antropo-poiesi non è un prodotto, un risultato acquisito: è invece un processo che si svolge nel tempo. Rivolgendosi alla sapienza dei Caldei, Pico afferma che «l’uomo è animale di natura varia, multiforme, cangiante». Inoltre, l’antropo-poiesi non solo si svolge nel tempo, non solo è fatta di divenire, ma è pure suscettibile, oltre che di disorientamenti e di ostacoli, di veri e propri fallimenti: il divenire dell’antropo-poiesi non è un lieto scorrere di eventi positivi, un processo sicuro e sereno; nel divenire si annidano tutti i “drammi dell’antropo-poiesi” (Remotti 2013).
Fa parte dell’antropo-poiesi rendersi conto del divenire: il “fare” di Homo faber non solo avviene nel divenire, ma vi contribuisce fortemente. Nelle molteplici espressioni di Homo ludens possiamo rintracciare attività che non soltanto riconoscono il divenire, ma riconoscendolo, sforzandosi di conoscerlo, danno ad esso forma. Qualunque aspetto assuma, la musica – un’attività umana praticamente universale di Homo ludens – è un modo di dare forma e senso al divenire, così da renderlo fruibile, riconoscibile. […]
[…] Quando si vedono gli oggetti di Adriano Tolomei fermi e ordinati in una sala di esposizione o nelle pagine di un catalogo, il senso della sottrazione al tempo e al divenire si precisa ulteriormente. Il filosofo del Settecento Johann Gottfried Herder aveva fatto notare che, mentre la pittura è – ovviamente – un’arte visiva, la scultura è un’arte il cui apprezzamento e valorizzazione richiederebbe non solo la vista, ma anche il tatto (come ben sanno del resto gli scultori).
La nostra tradizione espositiva sacrifica completamente la possibilità della fruizione estetica delle sculture attraverso il tatto. Beninteso, sono del tutto comprensibili le norme che in un museo impediscono al pubblico di toccare le sculture esposte. Ma tutto questo non fa che confermare il principio che caratterizza buona parte delle nostre scelte, tradizioni e istituzioni estetiche: impedire l’esperienza del tatto significa sottrarre gli oggetti all’uso e all’usura (un’altra forma del divenire) e, nello stesso tempo, isolare, acuire, privilegiare la percezione
visiva e intellettuale delle forme (paragonabili per questo aspetto alle idee platoniche, forme quant’altre mai sottratte al tempo). Soffermiamoci sull’opera di Tolomei “Il Silenzio del Limen”, che dà il titolo alla mostra a lui dedicata. Il limen fa pensare a uno spazio in qualche modo “sacro”, separato, a parte, proprio come aveva visto Arnold Van Gennep nel suo I riti di passaggio, un testo classico in antropologia, che risale al 1909. Lì egli aveva distinto nei riti – come loro struttura fondante – la tripartizione tra fase preliminare, fase liminare, fase postliminare. Il limen è la fase liminare, una fase di sospensione e di sottrazione alle attività della vita quotidiana e al divenire sociale. Il silenzio della liminarità accentua il carattere sacro delle forme sottratte al divenire, consegnate in qualche modo all’essere.
E allora, per cogliere bene questo punto, non sarebbe male reintrodurre il divenire in altra maniera: se non con il tatto, con l’udito. La proposta potrebbe essere quella di accompagnare l’esperienza, la percezione, la fruizione estetica di queste forme con brani di musica non invadenti, intervallati al silenzio. Sul piano estetico la musica è “ciò che scompare”, mentre per noi la scultura (scolpendo materiali duri o indurendo materiali molli) rappresenta “ciò che rimane” (Remotti 1993). Certamente, la nostra tradizione di pensiero ha “inventato” l’esse-
re, ma per comprendere bene questa scelta, per metterne in luce il suo profondo significato culturale, e persino le sue implicazioni estetiche, non sarebbe male evocare il divenire, da cui siamo trascinati e assorbiti, e a cui con la musica vogliamo dare una forma – una forma che non rimane fissa nello spazio, che si distende e scompare nel tempo e che, proprio per questo, pone in risalto ciò che intendiamo mantenere intatto nel silenzio di uno spazio liminare.

IBRIDAZIONI ANCESTRALITA’ E ANTROPOIESI
NELL’OPERA DI ADRIANO TOLOMEI
di Giovanni Bovecchi

(Estratto critico sinottico del testo introduttivo
al catalogo TOLOMEI – IL SILENZIO DEL LIMEN)
[…] Il viaggio che il criticonauta pretendesse intraprendere nelle forme scultoree ibridate, ancestrali o di puro raffinato design intellettuale di Adriano Tolomei non potrebbe assolutamente prescindere da una ancor più retroattiva indagine sull’intera operazione antropo-poietica incombente, ineludibile, nel profondo rituale creativo-ossessivo dell’artista costruttore, formatore, poièin (fare, costruire, modellare) di un’umanità (ànthropos).
Ciò ad esempio è etnologicamente comprovato dal canto-preghiera che i circoncisori Nande rivolgono al Dio Katonda appena prima di dare inizio al rituale antropo-poietico dell’ olusumba: Omundu, niki? Un uomo, che cos’è? A questa domanda il Dio Katonda non risponde.
Ed è la non risposta che apre alle possibili forme di umanità, così come davanti alle sculture di Tolomei spesso l’impossibilità oggettiva della univocità della risposta alla domanda che cos’è ci immerge in un sistema di ricerca che va dalla scultura-design (DesignArt) a ibridazioni ed ancestri di una forma che quasi astrae dalla materia stessa per assurgere a puro ludico e poetico, ma rigoroso, esperimento del creatum, del poièin appunto antropologico. […]